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EFFETTI BIOLOGICI DELLE RADIAZIONI

Lo studio degli effetti biologici delle radiazioni è piuttosto complesso ed ancora adesso, a circa un secolo di distanza dalla prima emissione di raggi X da un’apparecchiatura appositamente costruita, abbiamo dati che poco ci dicono riguardo agli effetti di basse dosi di radiazioni. Abbiamo a disposizione, però, un quadro di riferimento abbastanza preciso per quanto concerne alcuni aspetti quantitativi legati all’esposizione a radiazioni ionizzanti e, in particolare, alla dose assorbita e all’equivalente di dose. Nella trattazione verranno usati alcune nozioni nuove, che spieghiamo brevemente.

DNA: è la molecola in cui vengono immagazzinati i “dati costruttivi” degli organismi viventi: una specie di archivio. Ha una struttura a doppia elica: possiamo pensare a due file parallele di atomi avvolte su se stesse. Tra queste due file di atomi ci sono altri atomi che fanno da “ponte”. La disposizione di questi “ponti” crea un codice che può essere letto e riprodotto dalle cellule, e che guida alla creazione delle strutture dell’organismo.

Stocastico: Si definisce di tipo stocastico qualunque fenomeno di cui si possa parlare solo a livello statistico. Mi spiego: ci sono fatti che, almeno al livello della nostra esperienza, sono perfettamente determinati: per es.: se lancio in aria una moneta, essa cadrà sempre a terra. Potrò quindi dire: se lancio la moneta, essa cade a terra. Questo è un fenomeno deterministico. Se sono sicuro che la moneta cadrà a terra, non so pero se uscirà testa o croce: dovrò quindi dire: la moneta cadrà a terra e forse uscirà testa. Il fatto che esca testa o croce non è deterministico. Potrò però dire: se lancio la moneta 10000 volte, uscirà testa un numero di volte molto vicino a 5.000. Non posso dire nulla di ciò che avverrà in un dato lancio, ma posso dire qualcosa su ciò che avviene in molti lanci. Il fatto che esca testa o croce è detto fenomeno probabilistico o, con termine più tecnico, stocastico.

 Unità di misura 

Il bequerel
Il bequerel (Bq) serve a misurare l’intensità di emissione di un “oggetto” radioattivo. Con “oggetto” non ci si riferisce qui solo a qualcosa che possa essere maneggiato: si può misurare l’attività di un metro cubo d’aria, di una data superficie di un territorio, di una nuvola radioattiva ecc… Il modo più semplice per valutare l’intensità di emissione di un oggetto radioattivo è contare quante particelle radioattive emette in un secondo. Un oggetto ha una attività di un bequerel quando produce una particella al secondo. Il bequerel è una quantità estremamente piccola e sono di uso comune il kilobequerel (kBq=1.00Q Bq) e il megabequerel (MBq=1.000.000 Bq). Il bequerel prescinde dal tipo di radiazione emessa e dalla sua energia.

Il Gray 
Il bequerel ci fornisce una indicazione sulla radioattività emessa da un corpo radioattivo. E’ importante però anche misurare la radioattività assorbita da un corpo esposto a radiazioni. In questo caso non si possono contare le particelle assorbite, perché I’effetto prodotto dalle radiazioni non è legato al numero di particelle assorbite ma all’energia rilasciata nel mezzo irradiato. Per questo motivo bisogna trovare un criterio che ci dia una misura quantitativa precisa dell’effetto delle radiazioni assorbite da un dato oggetto campione.

Abbiamo visto al cap. 1 che I’assorbimento delle radiazioni corpuscolari o di fotoni emessi da radionuclidi hanno come risultato finale la ionizzazione della materia esposta. Quando, come conseguenza delle interazioni e della relativa perdita di energia, non si ha più capacità di ionizzare la materia, ma solo di eccitarla, dal punto di vista radioprotezionistico il fenomeno potrà essere considerato estinto.

Poiché la ionizzazione della materia costituisce un aspetto rilevabile e misurabile con facilità, essa ha fornito il primo criterio storicamente utilizzato per la misurazione dell’esposizione. La misura del “numero” di ioni prodotti in aria dalla radiazione in esame ha fornito la prima misura del potere ionizzante della radiazione in esame.

Questo valore ha però presto mostrato i suoi limiti, sia perché poteva essere misurato solo in un range ristretto di energia della radiazione ionizzante, sia perché il numero di ioni prodotti (in aria)   da   una   radiazione   poco   ci   dice riguardo a quanto accade nella materia usualmente considerata (generalmente in forme a densità assai maggiore di quella dell’aria): in questo caso assume maggior valore la determinazione dell’energia radiante effettivamente assorbita dalla materia. Nel sistema coerente di misurazione universalmente adottato nel mondo scientifico (SI -sistema integrato) l’unità di dose assorbita è il gray (Gy), che è definito come la cessione di 1 joule (unità di energia del SI) per ogni Kg di materia (1 J/Kg). Questa unità, relativamente alta quando parliamo di radiazioni ionizzanti, è in realtà molto piccola se valutata sulle scale consuete di energia: ad es., l’acqua irradiata con 1 Gy aumenta la sua temperatura (a causa della cessione di energia da parte della radiazione), di soli 0,00024 °C.

Il gray è un’unità di misura che ci descrive l’energia assorbita (per unità di massa): essa non ci dà alcuna informazione .sulle caratteristiche della radiazione a cui abbiamo esposto il nostro oggetto, cosi come nulla ci dice riguardo alle modalità con cui l’energia viene assorbita dalla materia.

 Il Sievert
Il gray (che è un’unità di misura della dose assorbita, come nel SI il metro è l’unità di misura della lunghezza e il secondo è l’unità di misura del tempo) non ci è sufficiente quando trattiamo dell’interazione della radiazione con la materia vivente.

Come visto al cap.1, i vari tipi di particelle producono diverse densità di ionizzazione della materia con cui interagiscono: estremamente concentrata e con un breve percorso le particelle alfa e i nuclei di rimbalzo, più ridotta i protoni e i neutroni ed ancora più bassa gli elettroni e le radiazioni non corpuscolari (raggi X e gamma); in particolare queste ultime, però, interagiscono scarsamente con la materia, dando origine ad una dose assorbita relativamente bassa. Le radiazioni con maggiore densità di ionizzazioni sono quelle che producono gli effetti biologici maggiori.

Non è facile capire perché occorre introdurre la differenziazione sopra descritta.: proviamo a ricorrere a un esempio. se abbiamo una piramide metallica a spigoli vivi e punta aguzza di alcune decine di chilogrammi (tra l’altro, il Kg è l’unità di misura della massa nel sistema SI) appoggiata alla nostra scrivania per la base, nulla accade. Provate però a girarla e appoggiarla per il vertice: in pochi istanti la scrivania sarà irrimediabilmente rovinata, nonostante il peso gravante su di essa non sia variato: solo la “densità” con cui il peso viene fatto gravare sul piano della scrivania è variata. Lo stesso accade a radiazioni dotate di diversa densità di ionizzazione: maggiore è questa densità, più alto è il “fattore di qualità” della radiazione. Per tenere conto di questo aspetto si è introdotta un’ulteriore unità di misura (state tranquilli, non ne introdurremo altre): il “Sievert” (Sv), che è l’unità di misura della “dose equivalente “calcolata mediante il prodotto tra dose assorbita e “fattore di qualità”.

Come fanno le radiazioni a danneggiare i tessuti viventi?
Abbiamo già visto che le radiazioni ionizzanti interagiscono con la materia mediante la ionizzazione, anche quando la radiazione non è composta da particelle elettricamente cariche; si ha cioè la creazione di coppie di parti aventi carica opposta (positiva e negativa): queste interazioni elettriche avvengono in trilionesimi di secondo. Successivamente, e si parla di miliardesimi di secondo, gli ioni prodotti, attraverso una complessa catena di reazioni, creano nuove molecole, tra cui alcune particolarmente reattive, che vengono chiamate “radicali liberi”.

La materia vivente è costituita in gran parte di acqua che pertanto, è il primo composto coinvolto nella ionizzazione. La ionizzazione dell’acqua dà origine a radicali liberi che in breve (da milionesimi a millesimi di secondo) interagiscono con le grosse molecole (chiamate macromolecole e importanti per il funzionamento delle cellule) presenti nel nucleo, nel citoplasma e negli organi della cellula, alterandole più o meno gravemente. Occorre però premettere subito che per le dosi di radiazioni di cui stiamo parlando (ed anche per dosi considerevolmente superiori) nessuna delle macromolecole alterate causa danni significativi o anche solo rilevabili: l’unica, importante eccezione a questa affermazione è costituita dal danno al DNA del nucleo. Il danno al DNA, fermo restando quanto più avanti affermato, può manifestarsi a distanza anche di decenni o, qualora trasmesso alla prole, di generazioni.

Il DNA è conosciuto più comunemente con il nome di “acido desossiribonucleico” e costituisce il materiale genetico: esso contiene tutte le informazioni che occorrono alla cellula e viene da essa integralmente trasferito alle cellule figlie.

Il DNA di un individuo (organismo) deriva per metà da ciascuno dei due genitori; tutte le cellule di un individuo (organismo) contengono copie identiche dello stesso DNA; ogni individuo (organismo) trasmetterà metà dell’informazione contenuta nel suo DNA alla discendenza.

Il danno al DNA viene nella stragrande maggioranza dei casi rapidamente riparato mediante dei meccanismi specificamente addetti a questa funzione che, però, di tanto in tanto commettono errori. I meccanismi di riparazione esistono in quanto danni (generalmente rotture) del DNA possono verificarsi per molte diverse ragioni, a cominciare dalla presenza di radioattività naturale: la cellula è pertanto già attrezzata alla bisogna.

Talvolta, come già accennato, il danno viene riparato in maniera incorretta o, addirittura, non è riparabile: questo accade tanto più facilmente quanto più il DNA è danneggiato. Il danno immediato al DNA è indicativamente proporzionale alla dose equivalente somministrata, ma, mentre un piccolo danno è suscettibile di riparazione completa o quasi in un tempo relativamente breve, con ripristino completo o quasi della situazione iniziale e possibilità di una nuova riparazione dopo una eventuale nuova esposizione e cosi via, un danno esteso può non essere riparabile. In altre parole, al diminuire della dose equivalente, il danno che residua dopo l’intervento dei meccanismi di riparazione diminuisce ancor più rapidamente: questo, tra l’altro, significa che la stessa dose somministrata in una singola soluzione è decisamente più dannosa della stessa dose complessiva, ma somministrata in dosi refratte.

Come conseguenza di questo fatto, le nostre cellule sono relativamente resistenti alle radiazioni quando queste vengono somministrate a bassa intensità in un periodo di tempo lungo, mentre la resistenza è minore quando le stesse cellule sono esposte alle medesime dosi, ma in un periodo di tempo più ridotto.

I fenomeni descritti, già evidenti in organismi unicellulari o per ogni singola cellula di un organismo pluricellulare, sono ancora più chiari negli organismi pluricellulari, come noi siamo. Come risultato, se ad esempio concentrassimo in un solo anno la dose che tranquillamente riceviamo dall’ambiente nel corso della nostra vita (e hanno ricevuto i nostri avi nel corso della loro vita) supereremmo di alcune volte la dose massima annua universalmente ammessa per individui esposti professionalmente al rischio.

Danni per basse dosi di radiazioni
Il rapporto tra il danno alla singola cellula e danno all’individuo non è di facile comprensione, richiedendo la conoscenza di elementi di fisiologia e di patologia non rientra  tra gli scopi di questi appunti. Possiamo però dire che il danno all’individuo può essere prevedibile con relativa precisione, quando si conosca la modalità di esposizione alla radiazione ionizzante e la dosa equivalente.

Questo caso, però, non ci riguarda direttamente in quanto il fenomeno non si verifica certamente per esposizioni modeste come quelle causate in Europa occidentale dal disastro di Cernobyl: occorrerebbero dosi migliaia o decine di migliaia di volte superiori e sappiamo che, al diminuire dell’esposizione, il danno diminuisce e al di sotto di un certo valore è nullo.

Diverso è il caso per il danno così detto “stocastico”, che non è prevedibile a priori nel singolo individuo. mentre, fatti gli opportuni studi, può essere abbastanza precisamente previsto in una popolazione.

Come vedremo più avanti. non si deve parlare di danno ma di “rischio”(di danno). Esso origina dal danno che residua al DNA riparazioni non possibili o “mal riuscite”. Questo tipo di danno residuo è difficile od impossibile da valutare ai bassi livelli di esposizione che ci interessano, ma pare nel contempo ragionevole e prudente ritenere che esso, nella peggiore delle ipotesi, a basse dosi equivalenti, sia sostanzialmente proporzionale alla dose stessa, azzerandosi solo con l’azzeramento dell’esposizione.

Questo tipo di danno ha due manifestazioni: la prima riguarda l’individuo esposto. la seconda la sua discendenza.

La prima manifestazione deriva dalla possibilità che l’eventuale danno genetico da una delle cellule dell’individuo sia tale da non alterare la capacità di duplicazione del DNA (riproduzione della cellula) ma solo da modificare i controlli esistenti alla riproduzione della cellula stessa fino a renderla incontrollata. Questo fenomeno dipende, lo ricordiamo, da una alterazione del DNA: essa è identica sia se causata dall’esposizione a radiazioni ionizzanti (non importa se naturali o artificiali) sia qualora indotta da mutageni chimici (per es. catrame delle sigarette), sia che accada quale risultato di causale errore di duplicazione del DNA stesso.

Non è possibile prevedere di quale mutazione potrà trattarsi, se e come sarà osservabile e soprattutto se e in quale individuo si manifesterà.

Non sarà neppure possibile risalire alla causa. Tutte queste valutazioni potranno essere fatte solo su base statistica, considerando ampie popolazioni di individui. Questo è il motivo per cui nel caso di danno stocastico si deve parlare di “rischio di danno”, mentre non si può parlare semplicemente di “danno”‘ non essendovi alcuna certezza che nel singolo individuo vi sia o meno danno.

La seconda manifestazione di danno stocastico è quella che concerne il rischio di danno alla discendenza causata dall’eventuale alterazione del DNA di una cellula germinale: in tal caso si parla a volte di “danno genetico”. Anche in questo caso si possono fare le stesse considerazioni già svolte in precedenza: vi è l’impossibilità di prevedere l’insorgere dell’alterazione (o la causa di un’eventuale alterazione) nel singolo individuo, ma possiamo solo stimare statisticamente la probabilità nell’individuo (o l’incidenza in una popolazione). La situazione è pero in questo caso ancor più complessa in quanto l’eventuale danno si manifesta nella generazione successiva (o addirittura nelle generazioni successive) e solo quando l’eventuale mutazione sia dominante, od avvenga in un cromosoma X o si accompagni ad identica mutazione recessiva derivante dall’altro genitore del soggetto che manifesti l’alterazione.

Tutti fattori questi che, unitamente ai lunghi tempi necessari per il manifestarsi dell’alterazione, ostacolano gravemente l’esecuzione di studi precisi nella nostra specie.

Ricordiamo, invece, che nulla si può dire sul singolo caso di danno genetico che, come tale, è di tipo stocastico e può derivare anche da cause diverse dalle radiazioni ionizzanti.

Ancora una volta giova però ripetere che, analogamente alla totale assenza di danni somatici indotti ad adulti o bambini nelle nostre aree geografiche dall’incidente di Cernobyl, neppure vi è stato alcun danno somatico fetale indotto dall’incidente: anche qui siamo a ordini di grandezza inferiori a quelli necessari per provocare alterazioni di tipo somatico.